“Io sono solo e sono solo un peso”: eziologia del suicidio

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“Io sono solo e sono solo un peso”: eziologia del suicidio

Quando qualcuno sceglie la morte piuttosto che la vita, quando qualcuno decide di smettere di combattere per proseguire l’occasione che questa vita gli concede, è difficile trovare risposte per chi rimane, per chi ne deve individuare il senso . E’ complesso dipanare la matassa di emozioni, di spiegazioni, di interessi e intenti nel tentativo di costruire non solo informazioni ma soprattutto azioni preventive.

Il comportamento suicidario è difficile da studiare; a chi ci ha lasciato è impossibile chiedere il perché ha fatto questa scelta , a meno che non scelga lui stesso di farlo, e anche qui le motivazioni personali, abdotte alla scelta, spesso non ci aiutano a comprendere come potevamo evitarlo. Ci si chiede spesso cosa non si è fatto, cosa non si è detto, o ancor di più se, quello che si è fatto o detto, era abbastanza.

L’Istituto nazionale di statistica ha diffuso un quadro di sintesi del fenomeno dei suicidi  in Italia, rilasciando anche i dati provvisori per l’anno 2015: ogni 100 mila abitanti i
deceduti per suicidio sono 10,4 fra gli uomini e 2,8 fra le donne. I dati ufficiali relativi al fenomeno dei suicidi tra gli uomini in uniforme, con riferimento al periodo compreso tra il 2009 e il 2014, sono i seguenti: Polizia di Stato 62 suicidi, 92 nell’’Arma dei Carabinieri, il dato riferito alla 45 nella Guardia di finanza, 47 nel Corpo di polizia penitenziaria e 8 nel Corpo forestale dello Stato. Bisognerebbe fare una proporzione  rispetto alla popolazione complessiva in divisa per valutarne l’incidenza reale. In tal modo, il dato rimane sufficientemente allarmante ma poco esaustivo. Ciò nonostante, colpisce comunque il numero importante di coloro che, con una uniforme addosso, scelgono il comportamento suicidario. La selezione all’atto dell’incorporamento dovrebbe escludere l’ipotesi di disturbi mentali, che certo possono emergere successivamente e non necessariamente in connessione al servizio prestato. Supposizioni che lasciano adito a semplici interpretazioni, senza alcun fondamento. Le autopsie psicologiche ci aiuterebbero a comprendere il fenomeno nelle sue infinite sfaccettature. Per trovare risposte, dobbiamo cercare di scendere nei vissuti e nelle storie di chi ha scelto il suicidio e farci una teoria che in quanto tale va provata, confermata, e ridefinita.

Se avete avuto accanto o conosciuto qualcuno che ha scelto questa strada, tenete a mente la sua storia e seguite questo percorso, è possibile che alla fine una stanza in più nella vostra mente si illumini su aspetti sottovalutati oppure ignorati.

K. Van Orden, dell’ University of Rochester Medical Center ci spiega come i fattori di rischio sono variabili associate a una maggiore probabilità che un risultato si verifichi, mentre i processi causali spiegano un risultato. Dobbiamo quindi soffermarci sul rischio (separazione, possesso dell’arma e/o perdita dell’impiego?) o trovare i meccanismi che ci spiegano i motivi ? o forse entrambi?

C’è una teoria che si chiama “teoria interpersonale sul suicidio “ che tuttavia ci aiuta a spiegare alcuni elementi, e a darci la possibilità di comprendere l’eziologia del suicidio, attraverso una nuova visione. Essa sostiene che il desiderio suicidario è determinato dalla presenza di due fondamentali costrutti: il senso di mancata appartenenza  (“io sono solo”),bisogno psicologico di base maslowiano,  e la sensazione di sentirsi un peso, di gravare sulla propria famiglia e sulla società  (“io sono un peso”). Il desiderio di morire che deriva da questi due costrutti non è poi così strettamente collegato alla capacità di mettere in atto azioni suicidarie. Esso può concludersi in semplici ideazioni, comunicate o non svelate, o tentativi volutamente non letali di porre fine alla propria vita. Un tentativo, ultimo ma forse ancora non disperato, per dire : “ci sono , dammi una mano”. Perché è proprio la disperazione, il sentimento limite che fa varcare la soglia tra il tentativo non letale di porvi fine e una azione suicidaria vera e propria.  La stessa OMS nel 1998 dichiarò che solo un piccolo sottogruppo di coloro che pensano al suicidio effettivamente poi tentano l’azione suicidaria, e un gruppo ancor più piccolo invece compirà azioni con il fine di porre fine alla propria vita . Sia l’idea suicidaria che i tentativi di suicidio  sono molto più comuni dei suicidi stessi . E poi in realtà solo una piccola percentuale del vissuto quotidiano dei soggetti  possiede entrambi i fattori: la solitudine e il peso . Allora perché?

Iniziamo quindi ad immaginare che abbiamo un mondo sommerso che non conosciamo, di cui non abbiamo numeri ufficiali e che rappresentano un contenuto di disagio psicologico ed emotivo che non vediamo. Che ogni giorno si sveglia al mattino e pensa di “voler morire “, e che non rappresenta e non è invece quel campione così diverso dove la progettazione di volersi uccidere è una finalità ricercata  . Il dato tuttavia diventa sempre più preoccupante.

La letteratura ci indica tra i vari fattori di rischio l’ isolamento sociale,  i conflitti familiari, la perdita del lavoro  e le  malattie fisiche. Sono sufficienti questi elementi per cercare di dare un inizio di struttura a una teoria sui perché che stiamo cercando? O forse pesano di più il senso di solitudine, il vissuto di abbandono percepito oltre che il dolore di non avere più le forze per farcela ed essere un peso per la propria famiglia? O forse è solo la disperazione che sopraggiunge come mancanza di strade percorribili che fa franare tutto?

Ci sembra banale spiegare un suicidio con la presenza di conflittualità familiari che ci portano più vicino a una condizione di rischio piuttosto che alle motivazioni vere. Il conflitto familiare che spesso è stato attribuito come spinta propulsiva  all’azione suicidaria ha forse le sue radici più profonde nel vissuto di sentirsi un peso per la propria famiglia. La probabilità di percepirsi come un peso per gli altri è l’elemento di congiunzione tra le separazioni familiari, la perdita di impiego e il connesso disagio psicologico, che può in qualche modo darci un chiaro quadro del percorso verso il suicidio.  L’isolamento sociale è probabilmente il predittore più forte e più affidabile di ideazione suicidaria, dei  tentativi e ancor di più dell’azione suicidiaria  (  Joiner & Van Orden, 2008 ). L’isolamento sociale si caratterizza per la solitudine e il ritiro sociale: ci si sente soli, si perde il dialogo con la famiglia, spesso si divorzia; pochi sono i servizi di supporto sociale.

Non ci scolliamo dalla storia che abbiamo in mente mentre leggiamo queste righe, e ancoriamoci al fatto che ogni singolo fattore di rischio è tuttavia limitato e va visto nella sua relazione complessa con la storia di vita della persona.

Il fondamento della teoria interpersonale  è l’assunto che le persone muoiono per suicidio perché possono e perché vogliono  e questo è disarmante . Essa ci insegna che un reale agito suicidario  è più probabile che si verifichi in un contesto in cui il soggetto viva un mancato senso di appartenenza  e si percepisca come un peso, e in entrambi i vissuti sia pervaso da un senso di disperazione, ma soprattutto che non tema più la morte e che la sua tolleranza al dolore fisico sia elevata .

Quanta abituazione al dolore è necessaria per rendere la nostra tolleranza una strada verso il suicidio?

Quanto le persone in divisa lavorano  nella loro carriera a controllare le loro emozioni? A controllare disagi e a vivere nel silenzio della solitudine difficoltà che non si possono enunciare?  Quanto ad assorbire i livelli di adrenalina? Quante volte di fronte al rischio di perdere la vita durante un servizio in divisa si sono confrontati con la morte e hanno imparato a non temerla?

Quanta importanza ha una rete capillare di supporto che non  faccia sentire soli? Quanto sarebbe importante un collega che a fine servizio ti metta una pacca sulla spalla e condivida con te il peso di questo lavoro?

Molte cose  ancora dobbiamo fare per non  vedere quei numeri sulla incidenza del fenomeno aumentare ancora.

E se hai solo un dubbio sulla persona che hai accanto, non esitare a chiedere aiuto perché la cosa più bella che possa accadere a una persona che non trova le parole per raccontarsi e’ che qualcuno lo prenda per mano, non lo faccia sentire solo e soprattutto alleggerisca i suoi pesi.

By |2019-01-22T18:52:48+01:00Gennaio 22nd, 2019|Categories: Articoli Staff AMD|0 Comments

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