L’epidemia nascosta

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L’epidemia nascosta

Il 2019 si è da subito presentato come un anno infausto. Il numero dei suicidi nelle forze armate e di polizia cresce esponenzialmente ogni giorno.

Il dato reale, non può essere estrapolato tuttavia dagli articoli di giornali: a nostro avviso e per nostra conoscenza il numero è ben più alto di quello che conosciamo. Lo stigma fa da muro nel contesto militare, ma tuttavia è comprensibile il dolore delle famiglie e il desiderio di non dare in pasto alla leggerezza mediatica il dolore e il disagio che stanno dietro a un nome, a quello che nel tempo diventa un numero.

Esprimere un parere sui numeri e’ forviante e scorretto: abbiamo bisogno di parlare di storie , di disagio e di persone. Come e perché l’atto suicidiario viene scelto come epilogo della propria vita oggi in particolare da dentro una divisa ? quale strano percorso determina una scelta così dolorosa e definitiva? Quali sono i fattori, gli eventi scatenanti e non protettivi che spingono una persona ad una tale scelta? Non sono i numeri a dirci questo. I numeri ci dicono che l’epidemia silenziosa avanza, quasi 50 suicidi nei primi 9 mesi dell’anno.

Ascoltando alcune storie di giovani suicidi si evince da subito una fragilità personale ben celata all’atto dell’incorporamento. Emerge il dubbio che la selezione abbia bisogno di essere rivalutata, reinquadrata e soprattutto approfondita.

Oggi siamo davvero sicuri che il processo selettivo sia capace di discriminare gli aspetti psicopatologi ? O al contrario valuta solo le competenze relative al ruolo lavorativo ?L’esperienza clinica con il disagio e le difficoltà d questi ragazzi apre una prospettiva diversa e diventa al contempo uno strumento importante per la prevenzione di questo fenomenoL’individuazione del rischio suicidario è un processo complesso così come le procedure da attuare per un trattamento efficace e purtroppo in alcuni casi anche questo è fallibile,; di certo però ridurrebbe chiaramente di molto l’incidenza del fenomeno.

Molti  dei soldati potevano  essere aiutati a cambiare idea, supportando i  familiari e aiutando i colleghi a riconoscere i segnali di rischio  e affidandosi a personale competenti.  Più ampiamente contrastando lo stigma attraverso l’opinione pubblica e impedendo che il trattamento e l’intervento avvenisse sotto l’egemonia di un’ “economia domestica”.

Quali sono quindi i segnali che possono farci comprendere che siamo di fronte ad una situazione a rischio e che possono portarci verso un epilogo diverso ?

L’ideazione suicidaria è un primo elemento di allarme: non è assolutamente vero, infatti, che le persone che parlano della loro morte o del desiderio di concludere il loro percorso di vita, poi  non lo faranno.

L’espressione verbale inoltre di un vissuto di demoralizzazione ha inoltre un’ incidenza sul condizione generale del soggetto:  viene infatti considerato una vera e propria sindrome quello stato di incapacità a reagire, accompagnato da sentimenti di profonda infelicità, perdita di speranza, perdita di senso nonchè un senso di incompetenza e di bassa autostima.

E’ in questa fase che il soggetto Inizia a disfarsi delle proprie cose, a smettere di avere una progettualità rispetto al proprio domani.

Non ultimo e fortemente preoccupante è il mostrare un improvviso ed inspiegabile miglioramento dell’umore. Quello che ci fa credere che la persona sta recuperando un equilibrio e che il rientro a competenze legate alla quotidianità possa essere un ulteriore percorso verso il benessere.

La valutazione del rischio suicidario è un atto clinico diagnostico fondamentale e indispensabile . Esso va inserito in un processo di anamnesi clinica, familiare e di  analisi del contesto che non può e non deve sottovalutare nessun elemento chiave in funzione unicamente del benessere del soggetto .
Da qui inizia la prevenzione

Siamo sicuri che non lasciamo ai Comandanti un carico decisionale che sfocia in una azione clinica che per loro sfortuna non entra nelle competenze e nel ruolo ?

Il più delle volte nei racconti dei soldati o poliziotti serpeggia un senso di solitudine e il vissuto di una critica spietata da parte dei colleghi. Sappiamo che è molto più facile etichettare che comprendere. La comprensione costa fatica, richiede ascolto, pazienza, attenzione, tempo. Il giudizio è veloce, istintivo, definitivo. Chiude ogni rapporto e ci permette di prendere distanza da ciò che più ci fa paura: il disagio psicologico e il suicidio.

Così se l’unico posto dove possiamo andare è il luogo dove ci viene rimandata la nostra immagine negativa, che alimenta il senso di delusione, la demoralizzazione, il vissuto che disintegra l’immagine già ferita di noi, è difficile che esso possa essere il luogo che ci possa salvare.

L’ art. 48 del D.P.R. n. 782 del 1985  di cui tanto si parla e che prevede per le forze di Polizia il ritiro dell’arma e del tesserino nel caso di sospensione dal servizio o di aspettativa per motivi di salute determinata da infermità neuropsichiche è un atto preventivo sacrosanto che sta perdendo la sua essenziale utilità.  L’art. 48  e’ nato a tutela del benessere del soggetto, ma ci appare evidente dagli eventi di cronaca, che non sempre il soggetto usa l’arma di ordinanza per mettere fine alla propria vita, e se ciò accade, è perché il famoso certificato di malattia non è stato presentato essendo egli stesso ancora in servizio.

In malattia per problemi psichici il militare o il poliziotto viene messo in aspettativa, lasciando a lui l’onere e il coraggio della cura e alla famiglia, solo e spesso con poche risorse. L’accompagnamento in questo iter il più delle volte non prevede un rientro in servizio.

Sembra che in questo percorso qualcosa manchi. Il dialogo con le Istituzioni sanitarie al quale il soggetto si rivolgerà è spesso inesistente e veicolato da certificati asettici e poco approfonditi. La famiglia e il soldato e/o poliziotto è solo a ricercareuna strada per risalire la china.

Possiamo provare a risolvere i loro problemi solo se riusciamo a definire correttamente cosa succede loro,  se facciamo qualcosa in più per mettere a punto un protocollo di intervento terapeutico finalizzato al riequilibrio del soggetto, e che guardi non solo al singolo, ma alla complessa rete sociale dalla quale lui stesso trova giovamento e della quale deve nutrirsi.

La sfida è quella di portarli a ritrovare una vita soddisfacente: questo processo inizia con il guardare in faccia i fatti accaduti. Non numeri, ma storie. Non statistiche ma analisi dei vissuti, racconti dei familiari.

Se non si conosce la storia di queste persone ci sono molte probabilità che siano definite matte o inabili, invece di essere aiutate a integrare ricordi passati che agiscono come mine traumatiche.

di Rachele Magro

By |2019-09-23T11:01:05+02:00Settembre 23rd, 2019|Categories: Articoli Staff AMD|0 Comments

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